Bruno mi aveva
con sé da poco più di quindici anni. Eravamo una bella coppia ed io, leggera e
agile, custodivo le speranze di un ragazzo un po' stralunato, ma ambizioso. Da
studente di lingue straniere, aveva amato viaggiare e accarezzare sogni. Ma si
era incastrato da quasi otto anni in un lavoro come addetto al call center per
una compagnia di crediti e prestiti. Tutto ciò che non avrebbe mai voluto fare
da ragazzo, lo stava facendo per un maledetto stipendio a fine mese. Il lavoro gli aveva permesso di discolparsi
dalla famiglia e di tenere quieta la sua ragazza con qualche cena esotica il
sabato sera, per poter seguire in santa pace le partite del campionato la
domenica. Io nel frattempo, cominciavo a fagocitare polvere e ricordi: principalmente
foto, le ultime foto stampate su carta, parlavano di un pezzo di vita ormai
messo da parte. Col tempo si era convinto di essere soddisfatto di sé e del suo
sudatissimo contratto a tempo indeterminato, ma ogni sera spegnendo l'abat-jour
si chiedeva chi sarebbe stato Bruno Martelli a ottant'anni.
Quella sera
tornato a casa sembrava come se qualcosa l'avesse fatto esplodere, non seppi
mai cosa gli accadde esattamente, ma aperta la stanza in cui ero rintanata, mi
prese e mi appoggiò accanto a sé sul pavimento. Quando cominciò a guardare
tutte le cose che avevo conservato per lui, il suo volto cominciò un po' a
distendersi ed esausti ci addormentammo lì .
Ci ritrovammo fuori in una mattina in cui il sole era
caldo e la stazione affollata. Era la giornata giusta per andarsene, restava da
capire quale dovesse essere il nostro binario. Io ero un po' disorientata, non
uscivo da quel ripostiglio da troppo tempo e mi sentivo goffa. Mi facevo
trascinare carica di tutti quei ricordi che non aveva voluto eliminare. Credeva
fossi l'unico modo per non perdere la consapevolezza di quello che stava
facendo. Eravamo lì con la sola idea di fuggire dall'inerzia in cui vivevamo,
ma non sapevamo dove diavolo andare.
Sulla banchina decise di fermare qualcuno: un barbone
ci indicò il 3, un binario morto. Un intellettuale, senza alzare gli occhi dal
libro che stava leggendo, spiegò
frettolosamente di voler andare all’8.
Un ragazzo in tuta, in sella alla sua
bici da corsa si fermò un istante a far chiacchiera:
"Io e lei tiriamo dritti al binario 13, per non sbagliare".
Scartammo subito l'idea: non potevamo, significava
bleffare ancora e non era il momento.
Una donna gli si avvicinò: sembrava fatta per essere
ammirata. I capelli portati sul lato le cadevano sul seno, le labbra rosso
cremisi e un filo di mascara evidenziavano il viso perfetto.
"Mi aspettano tutti all'11. Viene anche lei?"
- disse senza guardarlo.
Bruno balbettò qualcosa. Lui era titubante ed io
ormai certa della mia inutilità. Decidemmo di starcene lì e aspettare un segno.
Un vecchio si avvicinò a noi con fatica. Avevo la
tremenda sensazione di conoscerlo. Afferrò Bruno per la giacca, tossiva e
parlava appena.
"Signore, sta male? Signore?!"
“Non so.” rispose.
Prima di accasciarsi a terra mi colpì e caddi con lui.
Morì, senza dire nient'altro.
Bruno ne aveva compiuti ottanta. Alla stazione tutti
sapevano di noi. E tutte le valigie avevano una destinazione. Io no. Una
mattina il capostazione gli portò il caffè. "Hai visto? Hanno aperto il
numero zero: una sola corsa, scegli la data e il treno ti ci porta".
Bruno alzò le spalle, scolò d’un fiato il caffè e
ripose a monosillabi: “Non so.” Disse “Non lo so più”.
Poi cadde, portandomi giù con sé. Ricordo
perfettamente il momento in cui mi colpì.